Fermiamo la brutale repressione in Turchia
di Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci
Abbiamo partecipato ieri, con sdegno e passione, al sit-in davanti all’Ambasciata turca per protestare contro la pesante coltre di silenzio che il regime di Erdogan ha fatto calare sulla repressione in corso nel suo paese imbavagliando l’informazione. È un primo atto di reazione democratica, cui speriamo ne seguano molti altri. Malgrado il tentativo di nascondere la realtà, circolano le foto raccapriccianti di uomini nudi, stesi a terra con le mani legate dietro la schiena, che ci ricordano le drammatiche immagini degli stadi cileni. Per dare la dimensione dell’ampiezza della repressione in corso basta ricordare che sono più di 60mila le persone sotto inchiesta, sospese dall’incarico che ricoprivano nel campo dell’istruzione, della giustizia, dell’amministrazione pubblica. E più di 10mila quelle arrestate, tra militari e civili. Le licenze a radio e televisioni non gradite sono state sospese, chiusi diversi blog e siti, arrestati altri giornalisti. Anche il mondo islamico è stato colpito: sono quasi 500 gli imam perseguitati.
La sorte degli arrestati è del tutto incerta. Le prigioni turche erano già famose come luoghi di tortura.
Non è importante dire qui se il tentato golpe è stato più frutto di imperizia o di scelte sbagliate e magari eteroguidate. In ogni caso attendersi la libertà e la democrazia da un golpe militare è sempre un grave errore. Lo dimostra proprio l’Egitto di Al Sisi. Ciò che è evidente è che Erdogan ne sta approfittando per fare quello che non gli è riuscito prima. Come raggiungere quella ‘presidenza assoluta’ che finora non aveva raggiunto per via elettorale e che rappresenta la variante turca del più antico «dispotismo della maggioranza», come giustamente scrive oggi Nadia Urbinati. Erdogan dice infatti, quando ad esempio parla di reintrodurre la pena di morte, «se a volerlo è il popolo».
Giustificazione tipica di tutti i dittatori da che mondo è mondo. Intanto il primo a soffrirne è proprio il popolo turco e le minoranze, come quella curda, da sempre sottoposta a una guerra e a una repressione sanguinosa che va al di là dei confini della Turchia.
A questi popoli va la nostra solidarietà. Per fermare la spirale repressiva è necessario costruire un movimento su scala nazionale e possibilmente europea che imponga il rispetto dei diritti umani e delle principali regole democratiche in quel paese. Per un Mediterraneo di pace.
Le grandi potenze sono state a guardare. Hanno taciuto, per poi condannare il golpe quando hanno capito che era fallito. L’Europa che ora, con Angela Merkel, si dice «preoccupata» ha gravi responsabilità, che risalgono a diverso tempo addietro. Quando era possibile costruire un rapporto positivo con la Turchia e le condizioni per un suo ingresso nella Ue, si è lasciata travolgere dalla spinta xenofoba. Oggi le cancellerie europee dicono che mai una Turchia che reintroduca la pena di morte potrà entrare in Europa. Ma la Turchia da tempo guarda altrove e per la Ue il problema non è quelli che entrano ma quelli che se ne vanno. Brexit insegna. La Ue pensava di utilizzare la Turchia come bastione contro i migranti. Scelta che abbiamo subito contestato, perché quel Paese non forniva nessuna garanzia di rispetto dei diritti umani. Ora che è diventata «la più grande prigione a cielo aperto ai confini dell’Europa», come scriveva il giornalista Can Dundar prima di essere arrestato, non può esserci più nessuna ambiguità.
ArciReport numero 25, 21 luglio 2016