Noi non dimentichiamo
Alle 17,58 del 23 maggio 1992 un boato rompe il silenzio. All’altezza dello svincolo per Capaci una colonna di fumo si alza nera in cielo. Sembra un terremoto.
Più di 400 chili di tritolo aprono una voragine che risucchia prima l’auto guidata da tre agenti di scorta, poi quella guidata dal giudice Falcone, che morirà poco dopo in ospedale, come la moglie Francesca Morvillo.
Giovanni Falcone è ormai un simbolo della lotta alla mafia.
Negli anni ‘80, coi giudici Caponnetto e Borsellino, istruisce il maxiprocesso che porta in carcere gran parte dei vertici di Cosa Nostra. Per questo la mafia ha deciso che deve morire, e non solo lui.
Cinquantacinque giorni dopo, nella strage di via D’Amelio, muoiono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Il 23 giugno Borsellino aveva ricordato così l’amico Giovanni davanti a un migliaio di persone delle associazioni antimafia:
“… per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni…, le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità”.